martedì 19 maggio 2015

il pH dei vestiti


Che la lingua sia una “cosa viva” e che modifiche, contaminazioni, evoluzioni siano intrinseche alla sua natura, lo insegnano già a scuola. Sappiamo bene, anche, che uno dei risultati di questo processo è l’integrazione di migliaia di parole inglesi nell’italiano. Ricordo la mia insegnante di lettere del liceo sostenere che avremmo dovuto dire “vado al cinema a vedere una pellicola” piuttosto che “un film”. Negli ultimi anni, invece, la diffusione esplosiva dei dispositivi tecnologici e della rete ha moltiplicato a dismisura l’uso dell’inglese, in modo quasi inevitabile e ogni resistenza è vana. Per esempio, vi sto scrivendo questo articolo col WORD PROCESSOR su un PERSONAL COMPUTER, poi lo manderò via MAIL a Davide per la revisione e lo POSTEREMO sul BLOG. A quel punto ogni navigatore del WEB potrà leggerlo col suo BROWSER, persino tramite TABLET o SMARTPHONE.
C’è però una deviazione forse peggiore: il tentativo di trasporre in italiano dei termini stranieri, non così come sono, ma “italianizzandoli”. Ce n’è uno anche nella mia frase d’esempio: ve ne siete accorti? L’uso di queste parole cacofoniche mi capita spessissimo nel lavoro, dove il linguaggio è guastato dal contesto tecnologico-informatico. Qui vengono fuori delle perle come CUSTOMIZZARE (da customization…prima o poi, purtroppo, capiterà anche a voi di sentire parlare di customizzazione di massa…) al posto di personalizzare, “dobbiamo fare un PILOTA” (da Pilot) al posto di Esperimento Pilota e l’ormai diffusissimo  “ci vediamo settimana prossima” (see you next week), dove eliminando l’articolo forse ci illudiamo di sprecare meno tempo. Altre volte traduciamo, ma rimaniamo fedeli alla costruzione inglese, con un effetto meno disarmonico ma comunque prono ai modi di dire stranieri. Per esempio, il challenging objective, frequentissimo nei documenti di progettodiventa, in italiano, obiettivo sfidante.
Nel gergo lavorativo faccio sempre più fatica a evitare simili obbrobri, ma credevo che la lingua comune ne fosse un po’ più immune. Invece questo fenomeno è dilagante. Per esempio, qualche giorno fa, comprando i vestiti per mia figlia, la commessa continuava a dire: “questo è un modello basico”, “questa è una maglietta basica”. Il mio cervello, abituato a divertirsi come un bambino con i giochi di parole, ha cominciato a chiedersi quanto fosse sano per la mia bimba indossare qualcosa con pH minore di sette. Che ci fosse dell’ammoniaca su quel tessuto? Perché, in italiano,la parola “basico” si riferisce esclusivamente al concetto chimico simmetrico di acido (potete verificare sul dizionario). Basterebbe poco per tradurre il “basic” scritto sull’etichetta dei vestiti in “modello base”, ma la verità è che, ognuno di noi, nel suo piccolo, si assuefà a simili termini e finisce per scambiarli per italiano corretto. Un po’ come se mangiassimo gli spaghetti col ketchup senza accorgerci della differenza. Forse, la soluzione potrebbe essere quella di aiutarci, l’un l’altro, a prendere coscienza di parole o espressioni pseudo-tradotte, che usiamo ogni giorno senza pensarci.
A voi viene in mente qualche caso simile?

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